Sono nato a Milano. C’è sui documenti. Ma poi ho sempre abitato altrove e ci tornavo, all’inizio per lo più con mia madre, per tutte le cose che non c’erano altrove.
Dal sogno dei giocattoli di mastro Geppetto o le poltrone rosse d’Alemagna a San Babila, alle cose per casa di Picowa, le camicie di flanella o l’impermeabile da Brigatti, poi le messaggerie musicali, gli articoli sportivi del Bramani, tra gli ultimi gli stivali di Tanino Crisci, con cui mia moglie incinta non aveva più male alla schiena a camminare.
Ricordo il mio primo contatto col teatro, negli anni sessanta, giù al Manzoni. Venivamo da Sassari allora, bella terra ma difficile da vivere a quei tempi per uno che non vi fosse nato e vi cercasse abitudini del continente (come i locali lo chiamavano allora, e forse ancora) e la mamma ardeva dalla voglia di spettacolo.
Davano una commedia di Shakespeare, io avevo nove anni o giù di lì, ed ero felice di far da cavaliere a mia madre, uscir di sera e far tardi oltre ogni rigido permesso abituale, ed essere ammesso a uno spettacolo “da grandi”, come la mamma sottolineò chiedendo se proprio non volevo restare all’albergo con qualche Topolino e le Sanagola gommose di Alemagna.
No; non volevo; avrei sopportato per lei e per l’occasione (come feci da grande alla Staatsoper di Vienna) quattr’ ore di supplizio wagneriano e gli occhi luccicavano dello stesso brillare delle luci e dei cristalli sugli ottoni e gli stucchi della sala.
Che poltrona! Che pubblico! Di tante persone come noi, che sorridevano, attendevano si levasse il sipario, come tante nonne, o mamme, o padri, amici cugini di un ceto medio borghese, colto, confortevole e sicuro.
Non so più quale fosse il titolo, forse i gentiluomini di Verona, o la bisbetica domata, il ricordo è avvolto e superato dalla magia del contorno e della forma, degli uomini in carne ed ossa a recitare, ma ancor più dell’ambiente in cui eravamo.
Ero entusiasta; certo, anche del fatto di sentirmi per la prima volta riconosciuto e ammesso al mondo dei grandi sconosciuto, ma il ricordo di quella sera mi è rimasto per gli anni a seguire nella vita.
Più da grande Milano non è stata solo per divertimento; tante volte era la second opinion od il rifugio per questioni spigolose da sbrogliare coi tecnici, i consulenti più bravi, i dottori migliori, all’ansia o fatica degli incontri coi quali magari cercavo di associare due ore di sereno nella sera, così come dopo una giornata sui banchi alla Bocconi.
E tornavo al Manzoni, dove ho riso alle lacrime con Margherita e il gallo, quasi strisciando furtivo fino a un posto in prima fila visto vuoto, e ho scritto i messaggini a casa dicendo la sola cosa che mi manca è avervi qui.
E nostro figlio, che aveva allora quattro anni ed ha ascoltato il brillare delle luci dal mio Shakespeare a Maria Amelia Monti, ci ha chiesto quando sarebbe stato grande abbastanza per tornare con noi.
Finché il miracolo delle stagioni è ritornato e l’ho portato e l’ho visto battere entusiasta le manine, come forse le avevo battute alla sua età, e dirmi che forse non aveva capito proprio tutto, ma tanto gli era piaciuto come a noi.
Siamo tornati, si è sorbito applaudendo Carrière surrealista di cui mi ha fornito riassunto assai assennato e ha scelto come dono di compleanno di tornare per Salemme, per il quale c’era un palco a disposizione.
Cosicché, alla fine, mi sono chiesto perché dovessi andare a teatro con la mia famiglia nei ritagli delle grane della vita, o cercare coincidenze fra diversi impegni, e non potessi andare al Manzoni, ogni volta che ci fosse lo spettacolo.
E’ stata una liberazione, un affrancamento, una conquista.
Sono andato senza dirlo al botteghino, e li ho fatti indovinare , un po’ alla volta, mostrando un pezzetto dei tagliandi che usciva dalla tasca della giacca.
Ho creduto ritrovare, scendendo e salendo per le scale illuminate ( che altri - scortese o forse bolso - ha definito martirio per i cinquantenni) con piglio più atletico di allora, un’isola del tempo preservata dai propri fascino intrinseco e cultura dall’appiattimento che ha fatto sparire Bramani, Brigatti, Picowa e i sogni di Mastro Geppetto.
E, pur con senso della precarietà, rassicuravo il mio figliolo spiegando il concetto giuridico di prelazione, in generale e per le stagioni a venire.
Leggo con sgomento del megastore, preludio al quale non avevo intuito fosse lo sfratto dei vetri di classe di Murano, dei tappeti antichi, del gioielliere coi ninnoli di smalto, che pur solo da fuori rimiravo.
Ragioni commerciali, lo capisco; al portafogli , ancor meno adesso, non si comanda se non si è Bill Gates.
Onestamente anch’io, se lo potessi, metterei le puttane nelle vetrine di un mio negozio vuoto e affitterei a tempo le stanze sovrastanti, con selezione delle signorine e ricambio di biancheria pulita.
Perché al richiamo della bellezza - ed al suo uso secondo natura e costumi antichi al pari del teatro - risponderebbe una cerchia di distinti estimatori senza unire a vasto mio arricchimento alcun degrado.
Mentre non so immaginare, nel frastuono di musica coi bassi esasperati e luci elettroniche volgari, farmi pestare i piedi su scale mobili per guardare prodotti di serie acquistabili su internet o spender fortune per un paio di jeans pre-consumati o tacchi e mutande che inibirebbero qualunque focoso spasimante.
Un giorno, se qualcuno domanderà cosa fosse il congiuntivo e chi lo usava, si potrà forse proiettare - come archeologi o cospiratori - l’ultima replica di Neil Simon e dire che (davvero!) , non c’erano soltanto il grande fratello ed i modi di chi, tra poveri novelli ed arricchiti - forse nuove generazioni di palazzinari, politicanti e gestori - aspira a farne parte.